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La Piazza del Duomo, cuore artistico di Parma è un capolavoro architettonico del Medioevo. Su di essa si affacciano la Cattedrale, il Battistero ed il Palazzo Episcopale.
Simbolo della città, la Cattedrale, dedicata all'Assunta, fu iniziata intorno al 1059 su una preesistente basilica paleocristiana, per volere di Cadalo, Vescovo-Conte di Parma e Antipapa, e venne restaurata dopo il rovinoso terremoto del 1117.
La chiesa è considerata uno degli esempi più insigni del romanico padano e venne consacrata da Papa Pasquale II tra il 31 ottobre e il 4 novembre 1106.
Pur circondata dai rumori e dalla vivacità della vita cittadina, la Piazza del Duomo appare fuori dal tempo. Lo spazio ha proporzioni sapienti ed è definito da armoniosi edifici dai colori morbidi.
Il Duomo e il Battistero, che vi si affacciano, sono esempio mirabile di come la fede si possa esprimere con il linguaggio dell'arte.
Una selva di simboli e di rappresentazioni costellano i due edifici e parlano la lingua immaginifica del Medioevo.
La facciata è a capanna e presenta un grande equilibrio di elementi strutturali e decorativi. La tipologia si inserisce coerentemente alla tradizione del romanico padano – lombardo.
È in pietra e presenta tre ordini sovrapposti.
Nel primo ordine si trovano tre portali. Il portale maggiore ha un aspetto monumentale ed è preceduto da un pròtiro con due grandi leoni di marmo, scolpiti nel 1281 da Giambono da Bissone.
I leoni sorreggono le colonne su cui poggia un archivolto che reimpiega bassorilievi più antichi con le figurazioni dei Mesi a cominciare da marzo, poiché l’anno aveva inizio con la festa dell’Annunciazione.
La fascia mediana è composta da due ordini di loggette orizzontali percorribili, composte da trifore con colonnine in marmo veronese. Probabilmente in origine esse dovevano essere continue, essendo il protiro di costruzione posteriore.
La loggetta della sommità della facciata segue la linea del tetto, ed è anch’essa percorribile.
Nel 1284 il Vescovo Obizzo Sanvitale, demolita la vecchia torre campanaria, dette inizio alla costruzione dell’attuale, più slanciata.
Il campanile, a base quadrata, è a ridosso della fiancata della Basilica. È alto poco meno di 65 metri, presenta sottili lesene verticali ed è sormontato da una statua alta 1,42 m, un angelo in lastra di rame dorata. L’elegante trifora e la guglia di coronamento, risalgono alla fine del XIII secolo e sono di chiara ispirazione gotica.
La costruzione e la decorazione del Battistero di Parma fu quindi avviata nel 1196 sotto la supervisione di Benedetto Antelami.
L’edificio è a pianta ottagonale ed è caratterizzato da uno spiccato verticalismo. Notevole è l’elegante alternanza tra il marmo bianco ed il pregiato marmo rosso di Verona.
Per le caratteristiche architettoniche e decorative è considerato uno dei più significativi esempi della transizione dallo stile romanico a quello gotico.
L’alternanza fra pieni e vuoti che caratterizza la superficie esterna crea raffinati effetti chiaroscurali.
Al piano terreno gli archi a tutto sesto, entro i quali si aprono i tre portali strombati, sono intervallati da archi ciechi, ciascuno dei quali presenta due colonnine architravate.
I registri superiori sono invece costituiti da quattro ordini di loggette aperte, seguite da un ulteriore livello decorato con archetti ciechi, a sua volta coronato dall’elegante balaustra dalla quale si ergono otto pinnacoli.
La pianta poligonale dell’edificio è accentuata dai contrafforti angolari che incorniciano le otto facce del Battistero.
Il complesso corredo scultoreo del Battistero è opera di Benedetto Antelami e della sua bottega. Il maestro opera nella scia della tradizione plastica del romanico emiliano, reinterpretato però in termini di maggiore eleganza e naturalismo, secondo l’esempio della scultura gotica francese.
Il Palazzo vescovile è situato di fronte al Duomo di Parma. Vi risiede il Vescovo ed è sede della diocesi di Parma e del Museo diocesano.
Fu eretto dal veronese Cadalo Vescovo di Parma dal 1045 al 1072. Secondo altri la sua costruzione sarebbe successiva, tra la fine del XI e l’inizio del XII secolo. Di questa prima porzione restano una torre, un portale e alcune bifore visibili.
La facciata presentava al piano terreno un porticato in pietra e al primo piano undici trifore archivoltate. Nel XV secolo fu chiuso il porticato al piano terreno per ottenere delle stanze e sopralzato il piano superiore.
Il restauro della facciata principale, nel 1926, ha riportato alla luce le trifore duecentesche.
Il kirigami (kiru = tagliare e kami = carta) è un’antica arte giapponese: da un semplice foglio di cartoncino, mediante opportuni tagli e piegature, è possibile ricavare interessanti composizioni volumetriche, vere e proprie sculture di carta.
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Metafisica, il nome lo dice, è andare oltre la fisica, è la consapevolezza che l'eroismo è finito, che il soggetto eroico è definitivamente perduto, che lo stesso eroismo dell'Arte viene a mancare e l'Arte, dunque, diventa addirittura memoria privata, un passatempo. Il dipinto ci presenta una piazza, nella quale sono collocati vari personaggi e oggetti di natura diversa; nel fondo c'è un castello, il Castello estense, ma non è l'unico edificio presente: sulla destra ancora una costruzione immersa nella penombra, sulla sinistra, in un angolo, delle fabbriche con alte ciminiere.
In primo piano vediamo due personaggi che richiamano il grande tema della figura della pittura monumentale, ma immediatamente ci sconcertano, perché il loro aspetto non è quello di uomini o comunque figure umane, ma è l'aspetto di manichini o statue. A sinistra, in primo piano, il primo manichino, in piedi, appoggiato su un basamento circolare, dalla vita in giù, come una statua greca del periodo arcaico, rende assolutamente irriconoscibile l'anatomia che nasconde ed è fortemente marcato dalle profonde scanalature delle pieghe dell'abito mentre dalla vita in su si riescono ad individuare le spalle, il dorso di un persona in sembianze umane, vestita da un drappo che, appoggiato su una spalla, lascia completamente scoperta l'altra.
La lettura dell'immagine si complica quando, arrivati al collo, troviamo una massa nera che dà l'impressione di qualcosa di ligneo o di verniciato, che ha ben poco a che vedere col collo di un uomo e ancor più la testa, che addirittura sembra un birillo o addirittura ancora una palla da footbal, impunturata o trafitta da tagli che ben poco hanno di umano.
Il secondo personaggio è ancora un grande manichino, goffo nelle forme, sproporzionato se è rafforzato dalle dimensioni di un uomo, seduto questa volta su una grande scatola blu, le braccia conserte in grembo, una figura vagamente di sapore femminile, data la rotondità del torace, ma immediatamente inquietante, perché, proprio all'altezza dello stomaco, forata e assolutamente cava all'interno. Di nuovo all'altezza del collo c'è un elemento che poco ha a che vedere con la figura umana: un piolo o un birillo ligneo. La testa è staccata dal corpo ed è appoggiata a terra, accanto alle gambe, o base di statua o comunque elemento verticale, fortemente scanalato, anche qui di sapore Greco-arcaico.
La testa, dicevamo, appoggiata a terra, ha tuttavia ben poco di umano: è un pezzo di legno sagomato a forma di uovo, con due cavità centrali che devono far pensare alle cavità orbitali e delle fessure tagliate simmetricamente a destra e a sinistra, che rimarcano la spigolosità di quest'oggetto, diviso a metà simmetricamente da una linea verticale. In primissimo piano c'è ancora un'altra scatola, sfaccettata e decorata da colori, stesi in maniera piatta, e ci sono ancora altri oggetti, come un bastoncino di zucchero colorato, diritto, poggiato per terra tra l'uno e l'altro dei due personaggi. Sulla destra, a metà dello spazio,nella zona d'ombra, un terzo personaggio, una statua o forse il calco in gesso di una statua, abbigliata alla maniera classicheggiante .Ritorniamo al pavimento della piazza e osserviamo che si tratta di un pavimento ligneo, scandito da lunghe scanalature verticali, che si solleva, rispetto agli edifici che sono nel fondo, quasi fosse un ponte levatoio che si sta alzando o, forse, la tolda di una nave o, addirittura, un palcoscenico e, forse, il palcoscenico ritornerà in seguito nella lettura di De Chirico.
Il Castello estense fa da quinta a questo grande palcoscenico che la piazza lascia immaginare ed è proprio quinta teatrale, quest'edificio che può sembrare fatto di cartapesta, con tanto di torrioni e di bandiere sventolanti, con un corpo di fabbrica sulla sinistra, dalla forma non precisata è, ancora, nell'angolo, affiancato da officine con alte ciminiere. Tutto il dipinto è pervaso da un colore rosso, che appartiene sia al pavimento sia alla testa di manichini e ai manichini stessi, con pennellate sovrapposte al giallo dei loro corpi sia ai corpi di fabbrica si ha quasi la sensazione di assistere ad un incendio un incendio che è nell'aria, forse il tramonto, per queste ombre lunghe che si allontanano misteriosamente. E' proprio il mistero, anzi l'enigma il tema centrale di questa opera "Le Muse inquietanti", inquietanti perché irriconoscibili, inquietanti perché lontane da una qualsiasi realtà catalogabile, inquietanti perché trattate con un cromatismo cristallizzato che rende estranei a ciò che avviene sulla scena, la scena, appunto di un palcoscenico. Non c'è denuncia, non c'è Rivoluzione, non c'è boicottaggio, c'è piuttosto un allontanarsi dalla realtà, evidentemente vissuta come estranea e allora la risposta dell'artista è proporre una nuova realtà, altrettanto estranea, ma questa volta perché insondabile o forse vuota, internamente cava come manichini voluminosi ingombranti all'esterno ma senza corpo dentro: è la verità di un momento storico di grande travaglio, la fine di un conflitto mondiale, che ha visto buona parte degli intellettuali schierarsi pro o contro, vede in De Chirico il rifugiarsi in un mondo tutto suo, un mondo probabilmente recuperato dall'infanzia, dove giocattoli e dolcini riproducono il sentimento confortevole di un mondo ovattato ma allo stesso tempo perduto per sempre.
La Metafisica, arte di cui De Chirico è dicitore più importante, deriva il suo nome dal greco "tà metà tà physikà" "di là dalle cose fisiche" oltre il mondo fisico, naturale; vuol dire ricreare una realtà con oggetti, se mai, riconoscibili uno per uno, ma non certamente riconoscibili nell'assemblaggio che di essi fa l'artista.
Una piazza, assolutamente deserta, nella quale manichini, scatole, oggetti freddi, inerti, si perdono, anche se sono in primo piano, perchè ingoiati dalla assoluta staticità di un tempo che esce fuori dal controllo dell'ora, è un tempo che non viene scandito da un orologio. L'uso di queste linee, rigidamente sovrapposte al colore, pietrifica l'atmosfera ,il colore stesso, gli oggetti, pietrifica come è pietrificato il cuore di chi ha dovuto farsi spazio negli orrori di una situazione politico-sociale inaspettata ,assolutamente indesiderabile, tragica, come sarà quella del conflitto mondiale e, allora, tutto ciò che appare non è altro che recita.
Troviamo in de Chirico la stessa poetica che Pirandello espone nelle sue opere: la persona è personaggio, il volto è maschera, la vita è recita, il mondo è palcoscenico, le cose del mondo oggetti di scena, impossibilità di vivere una vita universalmente riconoscibile "Così è, se vi pare" "Sei personaggi in cerca d'autore" "Le Muse inquietanti" " Il tempio fatale" " Archeologi". Ritorna in de Chirico sempre il tema del manichino, il tema della testa vuota, ritorna in de Chirico la contrapposizione violenta tra la figura umana legnificata e il tempo che si ferma inesorabilmente cristallizzato.
Gli spazi infinitamente dilatati, non misurabili: ecco l'enigma!
L' enigma nasce proprio dalla impossibilità di misurare lo spazio-tempo. Questo produce ansia, produce volontà di estraniamento: la Metafisica non è un'arte di Rivoluzione, la Metafisica è un'Arte di intellettualità pura; è l’ emergere da tutto ciò che potrebbe essere valutazione del presente in questa o in quell'altra ideologia.
Pur rimanendo misterioso il complesso significato della composizione, l’opera celebra l’amore, la pace, la prosperità. Si trovava alla fine del XV secolo nella casa in via Larga dei cugini di Lorenzo il Magnifico dove stava appesa sopra un tettuccio, una sorta di cassapanca caratteristica dell’arredamento delle residenze signorili rinascimentali.